Il tempo passa e tanti ricordi sbiadiscono in fretta, ma alcuni rimangono impressi per sempre. Come tante persone, quel giorno di vent’anni fa, stavo seguendo in diretta via Internet il rientro dello Shuttle Columbia. Dieci anni fa scrissi queste parole, che credo siano ancora valide ora che si torna a volare frequentemente nello spazio e si pianificano nuovi veicoli e nuove missioni, come promemoria del fatto che lo spazio è un ambiente ostile che non perdona e che non va mai, in nessun caso, preso sottogamba. Per aspera ad astra.
Ricordo una voce del Controllo Missione che cercava ripetutamente, oltre ogni buon senso e ogni speranza, di avere risposta alle sue chiamate via radio dallo Shuttle Columbia che stava rientrando sulla Terra al termine della propria missione. Ricordo le prime immagini di quei frammenti brillanti che solcavano in gruppo il cielo, tracciando scie bianche che non lasciavano spazio a conclusioni alternative.
Ricordo la voce rotta del direttore di volo che dava l'ordine che nessun direttore vorrebbe mai dare: chiudere a chiave le porte della sala controllo e sigillare i computer. L'ordine significa che la missione si è conclusa in tragedia e che ora bisogna congelare la situazione per capire cosa è andato terribilmente storto. Sette astronauti erano morti: Rick Husband, William McCool, Michael Anderson, Kalpana Chawla, David Brown, Laurel Clark, Ilan Ramon. Di loro restavano soltanto le immagini, a quel punto amaramente fuori luogo, dei loro sorrisi e dei loro sereni resoconti degli esperimenti svolti durante la missione, trasmesse a terra prima del rientro. C'era persino un video, recuperato fra i rottami, che mostrava l'equipaggio durante le fasi iniziali del rientro, ignaro di quello che sarebbe accaduto pochi minuti più tardi.
Durante il decollo, lo Shuttle era stato colpito all'ala sinistra da un frammento della schiuma isolante dei supporti del grande serbatoio di propellente che accompagnava la navetta. Il danno sembrava a prima vista trascurabile e la fase orbitale della missione era stata completata normalmente, ma l'impatto aveva in realtà aperto un varco nell'ala attraverso il quale, durante il rientro, era penetrato un getto dell'aria rovente che circondava il velivolo, fondendo la struttura dall'interno. L'ala si era spezzata e il velivolo spaziale privo di controllo si era disintegrato mentre correva a venti volte la velocità del suono, a circa 70 chilometri di quota.
All'epoca erano circolate le storie più strane e alcuni giornali avevano pubblicato falsi scoop sul disastro. Nel 2008 fu pubblicato il rapporto finale sulle cause della perdita dell'equipaggio e del veicolo. Questo secondo incidente mortale con uno Shuttle (dopo quello del Challenger nel 1986) fu l'inizio della fine per questo veicolo straordinario.
Due disastri avvenuti (e tanti altri sfiorati) non solo per colpa di un veicolo eccessivamente complesso e delicato, frutto di mille compromessi tecnici e politici, non solo per colpa di un ambiente che per sua natura è irto di pericoli, ma anche per colpa di un difetto più insidioso: l’autocompiacimento della NASA, il suo eccesso di fiducia e di tolleranza verso gli errori.
Entrambe le tragedie erano state preannunciate da problemi che i dirigenti della NASA decisero ripetutamente di ignorare. E ogni missione che riusciva a tornare a casa regolarmente nonostante danni sempre più gravi faceva crescere quest’autocompiacimento, invece di far suonare campanelli d’allarme. “Visto? Siamo tornati anche stavolta, quindi quelle preoccupazioni sulle scheggiature dello scudo termico o sul gelo eccessivo nelle guarnizioni dei motori a propellente solido sono eccessive.”
Nel 1986 e nel 2003 quattordici persone, e le loro famiglie, pagarono un prezzo altissimo per quell’eccesso di fiducia.
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